Cari brand, in caso di crisi pensate alle persone non ai Like

antonio incorvaia
5 min readOct 23, 2020

In uno scenario clinico e sociale che, nella sua disarmante prevedibilità (se ne parlava addirittura già ad aprile), ci riporta esattamente indietro di otto mesi e ci dimostra che nel frattempo non abbiamo imparato pressoché nulla, lo spettro di un nuovo lockdown si sta facendo ogni giorno, e ogni notte, più concreto. E se politici e istituzioni continuano a reiterare i comportamenti viziosi — leggi: Dpcm che cambiano ogni quarto d’ora, incongruenze di sicurezza tra divieti e permessi, informazione compulsiva e sensazionalistica — che nella prima fase di emergenza e per tutta l’estate hanno contribuito ad aggravare ulteriormente il vissuto e il percepito di instabilità, c’è un secondo attore direttamente coinvolto in questo processo che è chiamato a dimostrare di aver fatto miglior tesoro degli errori commessi: le aziende.

Strette in una morsa di incognite una più critica dell’altra, si trovano oggi a dover fronteggiare rischi economici che vanno ben oltre un (nuovo) temporaneo stop a breve termine. Dalle circoscritte Pmi locali ai capillari marchi internazionali, la sensazione che nessuno sia in alcun modo immune alle più estreme conseguenze di ciò che continua ad accadere è ormai una certezza. Con un numero imprecisato di persone che non dovranno più solo adattarsi all’idea di lavorare da casa per qualche settimana, ma che dovranno rassegnarsi (o quantomeno prepararsi) all’idea di rimanerci a oltranza.

A marzo, di fronte alle prime avvisaglie di crisi, molti brand hanno patito il contagio — più ancora che del coronavirus — della Fear of Missing Out, preoccupandosi di dover “lanciare un messaggio” anziché di poter dare un buon esempio. Televisioni e social media sono stati sommersi da un brodo primordiale di campagne #StayHome perfettamente identiche tra loro e c’è stato perfino chi, invitato a non unirsi al rumore di fondo e ad attivarsi piuttosto sul fronte della Solidarietà e della Social Responsibility, ha messo nero su bianco che non comunicare su Facebook durante il lockdown significava perdere (cito testualmente) «l’opportunità che l’impatto del Covid-19 ci offre per sperimentare nuovi formati di engagement».
Del resto, se Parigi valeva bene una Messa, un Like val bene qualche centinaia di migliaia di contagiati, di morti, di cassa-integrati e/o di neo-disoccupati. È “l’impatto del Covid-19”, bellezza.

Ma che tipo di engagement ha generato, dunque, questa inattesa opportunità?
Il 60% degli italiani si è dichiarato “esasperato” dalla quantità di spot virali circolati durante la quarantena (fonte: Hokuto-Conic) e il 69% ha deciso di iniziare a boicottare le marche che hanno anteposto i loro interessi di business a quelli dei cittadini (fonte: Edelman). Senza contare la quota di utenti che, con ogni probabilità, nemmeno si ricordano il nome dei brand di cui hanno seguito i live cooking, i corsi di yoga, i workout di 7 minuti o le dirette di un’ora su Instagram con gli influencer.
Per contro, il 62% degli italiani ha paura di rimanere senza lavoro e il 30% ritiene che la loro azienda sia del tutto disinteressata al loro benessere (fonte: Randstad).
L’anatomia perfetta della condizione lose-lose, insomma.

Ora: è pacifico che di fronte all’ineluttabilità di dover tagliare quanti più costi di gestione per (cercare di) sopravvivere alla pandemia si possa fare ben poco, ma è pur vero anche, allora, che le persone a cui ha realmente senso “lanciare un messaggio” sono — senza se e senza ma — i propri employees, non 10, 100 o 1.000 follower sui social media che si spera di convertire in consumatori con qualche post a effetto “quando tutto questo sarà finito”.
In tal senso, mai come adesso l’Employer Branding assume un valore chiave nel pianificare in anticipo la migliore strategia d’urto. Investendo minori risorse di quante ne richieda uno spot, e ricavandone un maggiore ritorno di quanto ne produca un Like.

Primo Comandamento: comunicazione interna.

È statisticamente dimostrato che potenziare le attività di comunicazione interna contribuisce ad attenuare in maniera sensibile lo stress e il burnout di un dipendente costretto a lavorare in uno stato di ansia permanente sul proprio futuro. E tanto più riduce il rischio che si diffonda un malcontento sommerso di sfiducia che porta le persone ad abbandonare mentalmente la nave nella convinzione che stia colando a picco, con conseguenze insanabili in termini di motivazione e produttività.
Non si tratta per forza di promuovere iniziative di intrattenimento extra-lavorativo, ma anche — molto più semplicemente — di aprire dei canali di relazione ed engagement in orario di ufficio che testimonino la volontà dell’azienda di garantire a un employee un supporto pari al sacrificio che gli si sta chiedendo.

Secondo comandamento: outplacement.

Nessuno è al sicuro, dicevamo. Nemmeno Airbnb che, pur nella sua posizione di assoluta leadership di settore, a marzo si è vista costretta a licenziare 1.900 dipendenti a causa del crollo del Turismo su scala globale.
Ebbene: a fare più notizia dei numeri, in realtà, è il programma di welfare e outplacement che l’azienda ha messo a disposizione dei collaboratori in uscita per aiutarli a ricollocarsi. Tra i servizi offerti, una formazione gratuita per quattro mesi e un aiuto nella ricerca di una nuova occupazione per tutto il 2020.
Anche in questo caso è l’intenzione che conta, non le dimensioni. Sostenere con gesti piccoli ma significativi una persona che da un giorno all’altro si trova senza lavoro è il modo migliore per ricompensarla (per quanto paradossale possa suonare) per quanto ha svolto fino a questo momento.

Terzo comandamento: niente piani editoriali.

Fear of Missing Out, seconda stagione?
Ok. Se proprio l’ipotesi di tirarsi indietro di fronte a qualcosa che stanno facendo tutti (magari con tanto di analisi dei competitor commissionata ad hoc) non è contemplata, allora ha molto più senso raccontare ciò che di buono si sta compiendo per cittadini e dipendenti anziché riempire fogli e fogli di piani editoriali con testi e immagini di stock rilavorati decine di volte perché non sono mai abbastanza compliant con le policy e le styleguides aziendali.
Ricordatevi, cari brand, che da anni le vostre value proposition sono costruite sul principio delle “persone al centro”. Ecco: in questo, non perdete l’opportunità che “l’impatto del Covid-19” vi offre per dimostrarne il significato, la profondità e (soprattutto) l’autenticità.

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antonio incorvaia

Creative strategist, digital coach, autore e qualcos’altro (auspicabilmente) ancora da provare.