Cinque falsi miti sull’Employer Branding e come superarli

antonio incorvaia
4 min readJun 22, 2020

Trattandosi di una disciplina relativamente inedita nel dibattito sul mondo del lavoro in Italia (e spesso dipinta come una tattica di recruiting anziché come una strategia di mercato), agli occhi dei suoi potenziali pubblici di riferimento — ovvero HR, Marketing e Communication Manager — l’Employer Branding soffre ancora di quegli inevitabili errori di percepito che accompagnano i nuovi modelli culturali all’inizio della loro diffusione.

In fondo, è un po’ ciò che è successo con lo smart working: finché non è stato imposto come un’emergenza, la maggior parte delle imprese italiane ha faticato ad accettare che potesse rappresentare un’opportunità. E per l’Employer Branding, di cui peraltro lo smart working è una delle tante punte dell’iceberg, vale lo stesso principio: pur costituendo uno degli strumenti più efficaci per garantire a un’azienda vantaggi competitivi sostanziali, tende a risentire di una serie di preconcetti che ne penalizzano in modo consistente, prima ancora della pratica, la penetrazione.

Proviamo ad analizzare quelli più diffusi e radicati, e a capire come superarli con l’aiuto di dati ed esempi concreti.

1. L’Employer Branding è una pertinenza esclusiva delle Risorse Umane.

In realtà no. Secondo una ricerca di CareerArc, il 64% delle persone — e il 25% dei dipendenti — smette di acquistare i prodotti dei brand che hanno una reputazione aziendale negativa, percentuale che sale ulteriormente sul target dei Millennials. Inoltre, una recente indagine di Edelman attesta che il 69% dei consumatori abbandona un marchio se viene delusa dal suo comportamento sociale, e il 25% di loro lo abbandona per sempre. Questo significa che l’Employer Branding produce un impatto tale sul business di una società da coinvolgerne inevitabilmente, al pari delle HR, anche Marketing, Comunicazione e Data Science. Creando una sinergia di competenze interne (e talora esterne) dalla cui integrazione non possono che derivare vantaggi e benefici reciproci, anche nella ripartizione del budget.

2. L’Employer Branding è sostenibile solo da grandi aziende con grandi capitali.

In realtà no. Nei primi anni della sua attività, quando ancora era “solo” una piccola bakery nel centro di Milano, Pavé ha puntato moltissimo sull’Employer Branding, in particolare su YouTube e su Facebook, promuovendo il valore delle sue persone al pari del valore dei suoi prodotti. Questo ha contribuito ad amplificarne esponenzialmente l’attrattività e l’indotto (anche al di fuori dello specifico contesto locale), permettendo a Pavé di crescere ed evolversi al punto da aprire in poco tempo tre nuovi punti vendita: un’altra pasticceria, una gelateria e una birreria. A riprova, una volta di più, che non sono le dimensioni a fare la differenza nel proverbiale scontro tra Davide e Golia, bensì l’abilità strategica e la distintività dei contenuti.

3. L’Employer Branding è funzionale solo alle industry “mainstream”.

In realtà no. Ne sono un esempio evidente AstraZeneca e Intesa Sanpaolo, i cui siti Careers testimoniano che industry sulla carta più settoriali (come quella farmaceutica o quella finanziaria) possano stimolare sui loro utenti di riferimento un interesse e un appeal che molte industry “mainstream”, dal Food alla Moda e dall’Editoria alla Tecnologia, non possiedono. Anzi: paradossalmente, è proprio a loro che l’Employer Branding è più funzionale. Per ampliarne o ridefinirne il posizionamento, per esprimerne i valori e l’identità autentici o, magari, per assicurarsi i talenti migliori facendosi preferire — a parità di posizione aperta — a competitor potenzialmente più seducenti nell’immaginario popolare.

4. L’Employer Branding rende più complessa la selezione dei candidati.

In realtà no. Dovrebbe, invece, renderla più fluida e veloce, agendo — in termini ispirazionali e motivazionali — a un livello molto più profondo della pubblicazione isolata di un singolo job post. Sia per posizioni specializzate, come in Costa Crociere, sia per posizioni ibride come in Canon: esplicitare quanto più possibile gli step del processo di acquisizione; dare a un professionista non tanto una reason why per candidarsi quanto un supporto per candidarsi al meglio; semplificare al massimo la customer journey per evitare drop e abbandoni dovuti a frustrazioni varie ed eventuali; costruire, insomma, intorno alla pubblicazione di un singolo job post un ecosistema di servizi che vadano a toccare le corde delle persone giuste (e solo di quelle) agevola, soprattutto sul lungo periodo, l’attività quotidiana di un HR più di quanto apparentemente gliela complichi.

5. L’Employer Branding non è una priorità, specialmente in un momento di crisi.

In realtà sì. L’Employer Branding è a tutti gli effetti una priorità, specialmente in un momento di crisi. Che si tratti di rafforzare la coesione tra risorse interne e il loro senso di appartenenza all’azienda in condizioni di smart working e/o di insicurezza e instabilità; che si tratti di incentivare l’acquisizione di nuove risorse esterne per dare alla ripresa post-Covid 19 una maggiore spinta propulsiva; che si tratti, infine, di immaginare un “new normal” in cui datore di lavoro e luogo di lavoro non coincidono più e diventano entità e concetti liquidi, l’Employer Branding è lo strumento che più di ogni altro offre le migliori garanzie di ritorno sull’investimento. Lo testimoniano con successo i casi di Dentsu Aegis Network, che ha ideato un palinsesto di eventi digitali creati dagli employees per gli employees; di Folletto, che attraverso la sua community digitale aggrega e coinvolge i propri Agenti in modo connettivo e continuativo facendoli sentire una famiglia; di Danone, che aderendo al network della Repubblica degli Stagisti può contare su un canale reputazionale privilegiato su un target sempre più sensibile; o di COWO®, che come rete di coworking si trova al centro di tutte le più attuali e repentine evoluzioni di scenario nei rapporti di collaborazione tra professionisti e imprese.

Esperienze inevitabilmente diverse, originate da premesse diverse e condizioni al contorno altrettanto diverse, ma guidate da uno stesso intento comune: valorizzare il capitale umano al di là di qualsiasi ragionevole dubbio.
Casi virtuosi destinati a rimanere isolati in uno scenario che continua a essere (specialmente in un momento di crisi) vittima dell’advertising?
In realtà no.

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antonio incorvaia

Creative strategist, digital coach, autore e qualcos’altro (auspicabilmente) ancora da provare.