Due o tre cose che ho imparato cercando casa a Milano nel 2023

antonio incorvaia
7 min readMar 6, 2023
Photo Credits: Peter Herrmann | Unsplash

Con colpevole — ancorché accidentale, diciamo così — ritardo rispetto ai tempi biologici standard, alla veneranda età di (quasi) 50 anni ho deciso che fosse finalmente arrivato il momento di affrontare di petto la principale causa di «logorio della vita moderna»: il mercato immobiliare di Milano.

Doverosa premessa. In un’ipotetica scala di sprovvedutezza in materia, mi collocherei idealmente un gradino sopra a “Dilettante allo sbaraglio”. Pur non avendo alcuna cognizione di causa di ciò che si nasconde dietro a un rogito, infatti, una laurea in Architettura e qualche lustro di esperienza nella Comunicazione e nel Marketing mi hanno però insegnato, se non altro, a leggere una planimetria (o a capire che un rendering non è una foto) e a decifrare i codici di un annuncio pubblicitario. Poca roba rispetto al maneggiare abitualmente dati catastali, impianti tecnici e pastoie burocratiche, ma sufficiente a fare di me un pollo da spennare con un minimo di accortezza.

A tale proposito, il primo e più desolante insegnamento che ho tratto dalla ricerca di un normalissimo mono/bilocale in una normalissima zona della città con un normalissimo budget a disposizione mi si è scolpito in testa già dopo la prima manciata di sopralluoghi: agli occhi dei venditori, quelli come me — ovvero i poco più che dilettanti allo sbaraglio (e nemmeno di primo pelo) che cercano casa esclusivamente per sé stessi — non sono affatto polli da spennare.
Più precisamente, non sono proprio un target.

Certo, avrei potuto sospettarlo al duecentesimo annuncio (su duecento) che recitava «Ottimo per investimento» e, solo in rarissimi casi fortuiti, nella migliore delle ipotesi anche «O per giovani coppie» (e vade retro boomers). Ma, mi dicevo, se funziona per due persone perché mai non dovrebbe funzionare per una sola?
La risposta è molto semplice: perché una persona sola che cerca casa per abitarci, con ogni probabilità dovrà chiedere un mutuo. E — formuletta di rito snocciolata da almeno una decina di agenti diversi sin dal momento stesso della prenotazione di una visita — «La proprietà non vede di buon occhio chi deve chiedere un mutuo per un mono- o un bilocale».
Perché chiedere un mutuo, per chi vende mono- e bilocali nella Milano del 2023, significa una e una sola cosa: infilarsi in un ginepraio infinito di rogne e, potenzialmente, rischiare di non vendere più (o viceversa). Che va bene tutto, ma trovarsi il perito di una Banca che si accorge all’ultimo momento che l’appartamento è abusivo e fa saltare il banco, per 200.000 euro, anche no.

Il target ideale di chi vende mono- e bilocali nella Milano del 2023, piuttosto, è l’abbiente magnate che i 200.000 euro ce li ha cash e che, nondimeno, si guarderà bene dall’avanzare alcuna pretesa di abitabilità (se non, quello sì, di qualche complemento di arredo instagrammabile) perché dall’indomani lo affitterà su Airbnb a prezzi da hotel di Dubai e dopo un quarto d’ora avrà la fila fuori di turisti usa&getta.

Photo Credits: Peter Herrmann | Unsplash

Che poi, secondo desolante insegnamento, ammesso e non concesso di riuscire a entrare da un pertugio di misericordia nelle grazie di un proprietario e arrivare ad allungare il naso in una proposta di acquisto, anche per comprare un immobile con un mutuo serve comunque abbondante liquidità. Ovvero, come minimo, tra il 20 e il 30% del suo valore per bloccarlo a titolo preliminare più il 4% del suo valore (ivato di un ulteriore 22%) per pagare gli oneri di mediazione, da versare rigorosamente tutti e subito per un totale di almeno 40–45.000 euro (senza contare quelli che, nel giro di qualche settimana, saranno poi necessari per le spese notarili ed eventuali progetti e accessori di interior design).

Ciò significa che, con meno di 50.000 euro sull’unghia, nella Milano del 2023 è pressoché impossibile comprare anche soltanto un mono- o un bilocale. E si tratta di un calcolo al ribasso su un appartamento di circa 160.000 euro che, generalmente, equivale a un entry level di 30 metri quadri con più svantaggi che vantaggi in una zona periferica non servita dai mezzi pubblici (ma ovviamente «a pochi minuti di auto dal capolinea del tram xy che collega con il centro e con tutti i punti di maggiore interesse della città», fermata vicino alla quale — si scoprirà in altrettanti pochi minuti — non c’è poi modo di parcheggiare l’auto nemmeno smontandola).

E quali saranno mai, terzo desolante insegnamento, tutti questi svantaggi?

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Per cominciare, potrebbe trattarsi di un seminterrato.
Certo, nell’annuncio ci sarà verosimilmente scritto «Piano Terra» (e sarà personale scrupolo dell’agente o del proprietario chiarire subito che «In fondo l’affaccio è sul cortile interno», quindi «è tipo Piano Terra», anche se il cortile interno è 50 metri sotto il livello del mare) oppure «luminosissimo grazie all’ampia vetrata» che dà sui bidoni della spazzatura en plein air o sui box auto, ma un seminterrato era e un seminterrato rimane. E i seminterrati, a quanto pare, vanno più di Hansel in Zoolander. Con quel loro caratteristico buio omega, con quei loro poetici finestrini a vasistas ad altezza marciapiede, con quella loro ambigua cifra stilistica di non essere mai sufficientemente isolati dal terreno sottostante («Ma tanto non piove più come una volta, adesso è comunque tutto secco», cit.), i seminterrati sono l’offerta più ricorrente di mono- e bilocali di nuova costruzione o di recente ristrutturazione. Perlopiù ricavati da ex laboratori, da ex ripostigli e da ex scantinati, danno l’impressione che la Milano del 2023 stia diventando una fittissima rete di cunicoli per topi.

Oppure di quarti piani senza ascensore, di piani terra davanti — ma letteralmente davanti, cioè apri la porta ed è lì — alla fermata dell’autobus (tipico degli ex negozi), di cucine senza spazio per il frigorifero, di camere da letto senza spazio per l’armadio, di finestre su strada senza inferriate e di soppalchi, gagliardi soppalchi ovunque. «Per fare ambiente», come mi è stato detto una volta, anche in monolocali di 25 metri quadri in cui bisogna passarci sotto (o starci sopra) in ginocchio, anche in tuguri che impongono una scala retrattile per salirci, anche con strutture e pavimenti di cartapesta che non dico a “famolo strano” tutte le notti ma solo a starnutire una volta di troppo e verrebbero giù di schianto.
L’importante è che la foto su Instagram, su Pinterest o su Airbnb possa attirare l’agognato clic dell’agognato turista usa&getta. E che quella su Idealista o su Immobiliare.it possa attirare l’agognato clic dell’agognato abbiente magnate.

Dopodiché, quarto desolante insegnamento, che chi vende non sappia se compresa nel prezzo c’è o meno la cantina, se il pavimento è di legno o è di gres porcellanato, se la caldaia è mai stata revisionata negli ultimi 30 anni, se sulla casa c’è un’insolvenza o una maledizione azteca e se nell’appartamento a fianco vive Hannibal Lechter o la Fata Turchina è perfettamente regolare. “Test clinici lo dimostrano”: 7 agenti su 10 non conoscono i dettagli tecnici né dell’immobile né dell’offerta.
Alcuni ammettono (candidamente, gliene va dato atto) che hanno giusto le chiavi per aprire la porta ma di tutto il resto bisogna parlare con calma in sede di proposta formale. Questo quando si presentano, perché ci sono anche quelli che non si presentano affatto o che, per ragioni non meglio precisate, applicano la stessa tattica di ghosting dei peggiori «It’s a match!» nelle app di rimorchio: dopo un paio di messaggi su Whatsapp che sembrava che la casa fosse già tua, ma che dico?, fissiamo subito un incontro con il Sindaco che ti facciamo avere anche la cittadinanza onoraria, spariscono nel nulla.
Irreperibili, dissolti, evaporati. Missing in action.
Neanche avessi chiesto loro «Hai altre foto?» (della casa, s’intende), che allora uno potrebbe perfino capire la ritrosia: pensavi fosse amore, invece era un monolocale a Milano nel 2023. Ci sta.
Ma poi ti domandi «Com’è possibile che a un agente non interessi coltivare un lead che ti contatta per una casa da 200.000 euro?» e la risposta torna lì, al primo insegnamento, e il cerchio si chiude definitivamente.

Photo Credits: Peter Herrmann | Unsplash

La Milano del 2023 non vuole più che noi “bravi ragazzi” si compri una casa. E non vuole nemmeno che la si affitti, con quello che costa, perché altrimenti ai turisti usa&getta non rimane che andare in albergo «e poi il seminterrato da 200.000 euro in fondo alla Linea Verde chi me lo ripaga, signora mia»?
Del resto, non fa una piega. It’s oh so urban.

Però peccato.
Peccato soprattutto che adesso che Milano è diventata finalmente una città da vivere, non sia più lontanamente una città da abitare. E il problema, in questo caso, non è — come spesso ci si sente ancora dire — che non ci sono persone «che non vogliono rimboccarsi le maniche». È che ci sono persone che stanno iniziando a rimboccarsi anche i sacchi a pelo.

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antonio incorvaia

Creative strategist, digital coach, autore e qualcos’altro (auspicabilmente) ancora da provare.