Due o tre cose sul Marketing che possiamo imparare dal K-Pop

antonio incorvaia
5 min readJun 7, 2019

Non bastano i record di vendita, non bastano i record di visualizzazioni, non bastano i record di retweet e non bastano nemmeno i record al box office: mentre l’intero pianeta sembra essere travolto a ogni latitudine dalla Hallyu, la new wave Pop coreana, l’Italia è ormai l’unica roccaforte occidentale a rimanere barricata dietro le inespugnabili mura del trap, del reggaeton e del neo-melodico. Certo, esistono i fandom locali di questo o quel gruppo, esistono i cultori di K-Drama e i Festival di settore, esistono i “giornali seri” che ogni tanto ci scrivono sopra qualche “articolo serio”, ma l’idea che «c’è tutto un mondo intorno» non ha ancora abbattuto le difese immunitarie di nessun canale mainstream nostrano.
E se musicalmente ognuno si gode il Pop che si merita, esistono però aspetti molto più profondi legati al Marketing — stiamo pur sempre parlando di un Paese di 51 milioni di abitanti che è entrato nel XX secolo a partire dagli Anni ’70, e che solo dal 1993 si è affrancato da regimi di pseudo-dittatura militare — che sono interessanti da analizzare in un momento storico in cui tutti, dalle multinazionali al bar sotto casa e dai media guru agli influencer-wannabe, sembrano alla disperata ricerca della pozione magica per avere più like, più follower, più lead, più clienti, più fatturato, più quote di mercato e, dunque, più potere.
Insomma, per farla breve: più del solito, striminzito quarto d’ora di celebrità.

«COSTRUITO A TAVOLINO»? SÌ, GRAZIE.
Non è dato sapere cosa ci sia di male nel pensare al Pop come a qualcosa — testualmente — di «costruito a tavolino». Non è dato sapere, per esempio, perché può essere “costruito a tavolino” un film, uno spettacolo teatrale (perfino l’improvvisazione ha regole “costruite a tavolino”), un corso di laurea o un’intera città (“pianificare” non è forse “costruire a tavolino”?) e non, invece, una boyband di sette persone che cantano e ballano per due ore e quaranta in mezzo a uno stadio.

«Costruire a tavolino» significa letteralmente «adottare un approccio strategico», e se in questo c’è qualcosa di sbagliato, semmai, è proprio il suo contrario.

Ovverosia l’affidarsi al caso, alla fortuna, all’intuizione creativa fine a se stessa o al preconcetto che per raggiungere un qualunque obiettivo commerciale sia sufficiente «crederci sempre, arrendersi mai».
Come se lavorare con Power Point ed Excel anziché con una tela e un pennello fosse un oltraggio agli Dei dell’Arte, come se progettare e vendere musica fosse diverso da progettare e vendere smartphone, come se nello Show Business esistesse una qualche “purezza della razza” profanata dall’uso del synth al posto della chitarra o dal vivere di risultati piuttosto che sopravvivere di bei sogni.

Nel K-Pop tutto è rigorosamente, religiosamente, meravigliosamente “costruito a tavolino”. Tutto: dai training intensivi per diventare ‘idol’ ai concept creativi degli album, dal colore dei capelli abbinato agli outfit alle coreografie in perfetto sync, dal modo di relazionarsi coi media al modo di relazionarsi col pubblico e dai packaging dei cd (unico mercato al mondo in cui questo supporto sia non solo vivo e vegeto, ma vero e proprio oggetto di culto) al singolo fotogramma di ogni singolo video. Con quella cura maniacale per la tecnica e la disciplina che in Oriente ereditano alla nascita e che dovremmo iniziare a praticare anche noi — noi del «Mi dai qualche idea per vendere case sui social?», del «Quanto dev’essere lungo un video virale?» o del «Bello, ma lo farei più arancione».
Perché, ragionando per assurdo, se anche ci fosse qualcosa di male nel “costruire a tavolino” qualcosa che produce revenues per 532 milioni di dollari l’anno, sarebbe senz’altro peggio il non riuscirci affatto.

L’UTENTE AL CENTRO? ANCHE NO.
Nei concerti di K-Pop, il palco è sempre al centro della platea (o, comunque, c’è sempre un palco anche al centro della platea). Perché l’idol coreano, per principio, deve stare in mezzo al suo pubblico. Quasi esserne parte.

Che poi è esattamente il ruolo che si richiede oggi a un brand: scendere dalla sua torre d’avorio — eretta nella Notte dei Tempi sui più arbitrari e autoreferenziali criteri di posizionamento — e calarsi “in media res” dove vivono, respirano e (soprattutto) spendono gli esseri umani reali nel mondo reale.

La favoletta dell’“utente al centro” è un’evocativa fascinazione per giustificare le tonnellate di informazioni che gli vengono risucchiate ogni 60 secondi dietro un monitor o un display, ma nessuna marca, nemmeno la più onesta intellettualmente, può davvero concedersi il lusso di mettere al centro i propri utenti. Il motivo è molto semplice: ciascuno di loro è diverso dall’altro. E più ci sforziamo di profilare Personas accuratissime (che hanno due figli, i capelli ricci e biondi, un’auto da rottamare, una lavastoviglie che non usano mai, una tariffa telefonica svantaggiosa e 127 mail non lette per mancanza di tempo), più ci allontaniamo dalla probabilità che esistano anche solo due persone così configurate.

No: al centro deve starci il brand, come nei concerti di K-Pop. A dialogare con il proprio pubblico, a guadagnarsi le sue attenzioni e a meritarsi i suoi soldi e la sua fedeltà. Senza ipocrisie, senza spacciare per «storytelling» la foto stock di un tramonto e per «engagement» una réclame di prodotto, e senza la presunzione che il cliente abbia sempre ragione quando paga e mai quando critica.
O magari senza chiamarlo più «cliente» nei Power Point e negli Excel in cui pretende di “costruirlo a tavolino” per “metterlo al centro”.

LA SACRALITÀ DEL LOGO, E COME ESORCIZZARLA.
I dogmi del Marketing tradizionale non ammettono deroghe: il logo è il primo, il più importante, il più iconico e il più intoccabile biglietto da visita di un brand. Guai a coprirlo, a nasconderlo, ad alterarlo, a farlo troppo piccolo, a non metterlo all’inizio di un video o a cambiarlo per almeno mezzo secolo.
Per carità, tutto corretto. Se non fosse che poi scarichi una qualsiasi delle app per indovinare i loghi dei brand e ti rendi conto che quelli che ti sono rimasti davvero in testa ti consentono a malapena di superare il primo livello.
Su questo, il K-Pop ci offre una bizzarra visione alternativa.
Gruppi come EXO e INFINITE, infatti, hanno fatto proprio del continuo cambio di logo uno dei loro punti di forza commerciali. Pur tenendo fermo il concept, lo hanno rielaborato e remixato per l’uscita di ogni nuovo album, generando nei fan un motivo in più di curiosità e di attesa (driver di teasing) nonché di collezionismo (driver di vendita).

Che non equivale a sostituire il nome del prodotto con un nome di persona sull’etichetta di un barattolo per “mettere l’utente al centro”, ma significa dare al logo una funzione semantica oltreché semiotica.

Si obietterà: «È facile farlo con una boyband, ma con uno yoghurt? Una lavatrice? Una trattoria del 1825? Una ditta di bulloni?».
Fortunatamente, chi ha “costruito a tavolino” gli EXO e gli INFINITE non si è posto il problema, facendo sembrare facile la sua soluzione. Che poi è sempre il modo migliore per risolvere un problema.

Evoluzione negli anni del logo degli EXO
Evoluzione negli anni del logo degli INFINITE

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antonio incorvaia

Creative strategist, digital coach, autore e qualcos’altro (auspicabilmente) ancora da provare.